I. (Release 1.5)

Il primo ricordo è questo.

Era una chiara serata alpina di fine Marzo ed una leggera mollezza mi perva- deva il corpo e lo spirito. Una logoramento causato dal lungo viaggio e dalle lunghe risate portava il mio animo ad essere particolarmente ben predisposto verso ogni cosa che mi stesse accanto. Ricordo che mi soffermai sulla porta della mia stanza di motel e da sotto il piccolo porticato osservai un aliante che atterrava in quel momento nel prospiciente minuscolo aeroporto. La te- nerezza della luce del crepuscolo ed il tepore portato dal föhn, il vento da Ovest che arrivava a me dopo aver attraversato chissà quante valli, mi fecero apparire la fine del volo di quel rigido aliante piena di una vellutata e nascosta eleganza.

Interpretai questa mia buona attitudine dell'animo come era mio solito: «Stasera dovrà essere la mia sera» andavo ripetendomi.

Il ricordo successivo è la visione della mia camera d'albergo in penombra, pregna di un intimo odore di chiuso come quello che si respira sotto le len- zuola di un'alcova divisa con una persona a noi cara.

In quello squallido bungalow che io dividevo con il mio confidente più intimo, Mino Marchi, si erano dati convegno tutti gli allegri componenti della gita. Si parlava del più e del meno aggiungendo a tutto un sottile ma impenetrabile velo di ipocrisia che celava le inconfessabili mire di ognuno; era un abile gioco di alta diplomazia: sguardi, positure, atti del corpo parevano inconfuta- bilmente spontanei ma erano invece frutto di meticolosi studi...

Sovente chi rideva era lacerato dal dolore e si struggeva per i propri senti- menti; o ancora vi era chi, pur abbandonandosi ai lazzi, faceva sogni molto sensuali come Petra Zampi nei confronti del Marchi. Io, infine, eseguivo freddi calcoli e terrificanti dialoghi con me stesso per convincermi a compiere una qualsiasi mossa verso Tecla Gitti. Oramai un gesto verso di lei non avrebbe significato più per me l'inizio di una relazione con quella ragazza che da un anno occupava segretamente il mio cuore, ma una vittoria in quella specie di sfida con me stesso per vincere la mia assurda ma tenace timidezza. Non ho mai capito cosa rappresentasse per me quella diafana creatura; in lei tutto mi appariva velato, etereo e, allo stesso tempo, orribilmente infantile e volgare. Sua caratteristica peculiare era l'assoluta mancanza di proporzioni aggiunta a una sensazione di profonda instabilità che si riceveva nel considerarla: come se in lei tutto fosse provvisorio o precario. Ogni sua espressione del volto ne stravolgeva i lineamenti passando da parte a parte, senza pietà, rendendolo irriconoscibile ed inquietante. Gli occhi erano sproporzionatamente grandi e mobili e forse per questo mi attraevano: quante volte col Marchi avevo lasciato passare le lezioni mattutine spiando quegli occhi magistralmente catturati da uno specchietto!

Quella sera si era tutti in pigiama ed il suo corpo minuto e non ancora formato durava fatica ad imprimere alle pieghe della veste una qualche curva sensuale mentre invece il capo e le estremità degli arti contrastavano per volume e bianchezza con il resto della elegante personcina cosa che già allora, ed ancor più ora vedendolo attraverso la nebbia del ricordo, rendeva la sua immagine simile a quelle delle figure che popolano i nostri più inquietanti incubi. Ma allora, prigioniero di una perversione strana, dividevo nettamente amore platonico ed attrazione sessuale; tant'è vero che parallelamente coltivavo una relazione, usando le sale da ballo alla stregua di garçonierres, con una tale Domitilla Franceschetti ragazza alta, snella, dalla sensualità prorompente con la quale placavo il mio più naturale turbinio dei sensi. Quindi da Tecla cercavo solo lo sguardo intenso che sconvolge l'anima o, nel caso, la pudica carezza che rapisce la coscienza.

Comunque sia, in quella stanza si rideva.

Era una camera rettangolare ed i muri perimetrali del piccolo bagno ne delimitavano la parte quadrata ove noi eravamo disposti. Sul fondo c'era la portafinestra che dava sull'adiacente giardino, sulla destra un letto matrimoniale composito, coi guanciali posti contro il muro e due piccoli comodini ai lati. Lungo il muro di sinistra era disposto un divano letto e un piccolo tavolo con cassetto. Un paio di quadri nerastri erano appesi alle pareti. Il soffitto era basso e le fioche luci della abat-jour sul comodino di destra e del lampadario contribuivano a dare all'atmosfera un senso di artificiosità e di mistero. C'era una palpabile tensione ed a qualcuno presto sarebbero saltati i nervi per l'eccessivo sforzo della finzione ipocrita: come una bilancia dai bracci molto carichi, la situazione doveva evolversi improvvisamente e in modo sorprendente.

Comunque sia, si rideva...

Anch'io ero a mia volta completamente preso dal calcolo del come e del quando volgere lo sguardo verso Tecla o muovermi di un palmo verso di lei, senza che gli altri se ne avvedessero.

Ero seduto per terra ai piedi del letto dividendo un cuscino con la migliore amica di Petra, Eleonora Cordova, ragazza piacevole che però come ogni persona in quella stanza, eccetto una, mi risultava completamente indifferente. Stavo quindi, causa la nostra posizione, a stretto contatto con Eleonora; tutto il mio fianco sinistro combaciava perfettamente dalla spalla, all'anca, alla coscia, al piede con il suo fianco destro trasmettendomi attraverso i pigiami una calore dolce e appiccicaticcio ma senza che in me ciò provocasse il benché minimo turbamento.

D'un tratto avvertii che quel brusio di voci false ed irreali che sentivo ma non ascoltavo e che fino ad allora avevano costituito l'assai poco romantico sottofondo dei miei pensieri amorosi, aveva cambiato tonalità e si era fatto più concitato: la bilancia aveva perso il proprio equilibrio. Immediatamente un senso di profonda stizza si impadronì di me come accadeva ogni qualvolta che, senza il mio consenso, la realtà esterna strappava la mia attenzione dai moti del mio spirito.

Mi parve comunque di comprendere che la situazione fosse questa: Sebastiano Bartolacelli, ragazzo non sgradevole se non fosse per la sua mania di coprirsi con cose di pessimo gusto purché‚ alla moda e per la sua orribile abitudine di ossigenarsi i capelli e di profumarsi esageratamente, da tempo faceva con assiduità ed insistenza la corte a Petra ed Eleonora; corteggiamento che per termini e modi esulava dai canoni da noi considerati comuni: per prima cosa compiva avances sfacciate e spesso volgari dirette ora all'una ora all'altra e poi, cosa che più scandalizzava, si serviva di continui prestiti e doni di oggetti e di danaro per assicurarsi i favori delle sue predilette. Esse, infantilmente e con civetteria inaudita, dapprima accettavano di buon grado le attenzioni di Sebastiano poi, nel momento in cui lui passava dall'offerta alla questua anche solo di un briciolo di conversazione, davano luogo ad un improvviso voltafaccia rinnegando tutti favori ricevuti.

La discussione che seguì quella notte (era tardi, quasi l'una) chiarì una volta per tutte il perché‚ quel tipo di corteggiamento non fosse né‚ da secondare né‚ tanto meno da praticare.

Sebastiano si sentiva molto trascurato; vedeva tutti i propri sforzi frustrati: egli guardando con gli occhi di chi desidera non durava fatica a comprendere bene cosa significasse la positura mia e di Eleonora e, per quanto riguardava Petra, ella non faceva che canzonarlo crudelmente. In quella atmosfera falsa ed irritante divenne quindi dispoticamente esigente: dato si che non vi era lo spazio fisico per avvicinare Eleonora, toccava ed abbracciava disperatamente Petra la quale lo scacciava spesso con violenza.

«Insomma,» sbottò ad un tratto provocando quel cambiamento di situazione per me tanto irritante «oggi facevate le civette facendovi offrire giornali e musica, Martini e caramelle... Pensate ora di non dovermi proprio nulla?».

In fondo arrogava un suo diritto quasi legittimo, il poverino!

Eleonora ristette immobile guardando non so quale trama del copriletto.

Perciò dopo un attimo di pausa rispose Petra. Spostò con gesto elegante e stizzoso il ciuffo biondo ed ondulato che normalmente le copriva metà del viso, scoprendo così alla luce il naso informe e vagamente suino, la guancia paffuta, la bocca rosea, carnosa ed estremamente sensuale: di lì uscì la voce che, rimbalzando nel silenzio e nella penombra, pareva smarrire il vero punto da dove provenisse perdendo in questo modo anche tutto ciò che aveva di terreno.

«Ma cosa credi?» disse con accento alterato ed ingiurioso «Ma di che cosa ti sei illuso? Pensi che per quattro soldi io mi faccia toccare da un ruffiano del tuo stampo?».

A quel punto chi sonnecchiava si destò del tutto e chi aveva continuato a blaterare tacque.

«Sappi che quei quattro soldi, come li chiami tu, corrispondono esattamente a trentasettemila e cinquecento lire...».

«Ha! Il signorino si É fatto i conti in tasca! Hai mai pensato quanto di più possa valere delle tue sporche trentamila lire, io?».

«Ma...».

«Ma va al diavolo!».

A quel punto Sebastiano se ne andò davvero sbattendo al porta, seguito da alcuni fidati amici.

Lentamente, dopo alcuni commenti pronunciati a bassa voce, la riunione si rifece giuliva e falsa come se nulla fosse accaduto.

Una voce urlò dentro mi me:

«Io vorrei sapere una cosa... Vorrei sapere» diceva quella voce, ed il tono era alto, vibrava, ed un tremito passò sulle mie labbra «se tutto questo dovrebbe essere permesso... Questo vorrei sapere e se sia possibile continuare così, tutti i giorni, con questa noia, e non cambiare mai e non lasciare mai queste miserie e compiacerci di tutte le stupidità che ci passano per la testa, e discutere e litigarci sempre per le stesse ragioni e non staccarci mai da terra, neppure di tanto.»

Conoscevo bene quella voce e quel discorso poiché‚ era inseparabile compagno della possente insofferenza che a volte mi assaliva: questa era una di quelle volte...

Alzai gli occhi su Tecla. Vidi che con un espressione che solo i suoi occhi sapevano rendere, mista di disappunto e di malizia, stava considerando il contatto che aveva luogo tra me ed Eleonora. Contatto che la mia vicina, con nonchalance, si ingegnava di mantenere vivo e totale assecondando i movimenti del mio corpo.

Quasi istintivamente decisi di alzarmi, addurre un pretesto e avvicinarmi a Tecla; ma mi sentivo spossato e nella posizione in cui ero si stava molto comodi e soprattutto risultava assai faticoso alzarsi. Tanto più che il litigio precedentemente avvenuto aveva esaurito le energie necessarie per dissimulare con esito felice ed ora anche il solo pensiero di comportarmi ipocritamente mi risultava estremamente ripugnante.

A onor del vero va però detto che io potevo discostarmi di un poco, senza alzarmi; ma questo pensiero sorse e immediatamente tramontò tanto che ora non potrei giurare di averlo effettivamente formulato.

Ricordo bene invece come mi compiacessi di osservare il fatto che pure Eleonora fosse completamente estranea a ciò che avveniva in quella stanza: ella persisteva nella sua immobilità ma mentre il corpo manteneva una certa duttilità, gli occhi erano talmente fissi che brillando nella penombra parevano cristalli saldamente incastonati, tra palpebre ed occhiaie, nella creta lattiginosa del volto.

Stavo appunto pensando a cosa ci potesse essere dietro a quegli occhi adamantini quando fu bussato alla porta.

Andò Mino.

«Chi è?» chiese prima di aprire.

«Chi vuoi che sia? Sono io, no?» rispose dall'esterno una voce senza accento.

Mino si volse verso di noi e disse: «E' Barto» chiamando Sebastiano col suo comune diminutivo.

Quindi aperse la porta dalla quale fece però capolino la professoressa Bistazzoni, nostra accompagnatrice, che egli riuscì abilmente a bloccare intrattenendola sulla soglia.

Bisogna sapere che quella notte l'allegra brigata stava commettendo due gravi trasgressioni: non solo era proibito muoversi dalle proprie camere e fare confusione a quell'ora ma in più noi si doveva essere nei rispettivi letti già da quattro ore. Si cercò quindi di sfuggire all'immancabile punizione: per un attimo i miei compagni pensarono a nascondersi nella camera stessa ma non vi erano armadi, i letti poggiavano sul pavimento ed il bagno aveva la porta proprio di fianco all'ingresso; per questo, dopo un attimo di smarrimento, si precipitarono in giardino attraverso la portafinestra.

Anch'io dovevo badare a salvare le apparenze e mettermi quindi sotto le coltri; feci l'atto di levarmi in piedi proprio nel medesimo istante in cui Eleonora andava facendo lo stesso. Per un attimo i nostri corpi rimasero labilmente uniti, come per effetto di una ventosa e ci fu l'istintivo conato a tornare nella piacevole posizione iniziale; poi, in modo oserei dire doloroso, ci fu il distacco... In quel momento mi balenarono nella mente le notizie riguardanti le operazioni che subiscono i gemelli siamesi e che causano il decesso di entrambi.

Quando finii di sistemarmi nel mio letto se ne erano ormai andati tutti e ogni cosa era tornata alla più perfetta normalità se non fosse che ciò che provavo in quel momento non era certamente quel sollievo del quale stava invece godendo il mio compagno; in più il tavolino di fronte a me era completamente sommerso dalle giacche e dai piumini che i miei ex ospiti avevano usato per ripararsi dalla tramontana notturna nel compiere il tragitto tra le loro camere e la nostra e nella quale, appunto, se li erano dimenticati a causa della loro fuga precipitosa.

Fui colto da un sensazione di freddo della quale non mi spiegavo né‚ l'origine né‚ la natura; perciò, mentre Mino faceva entrare la professoressa, m'immersi ancor di più nella coperta per cercare un benessere fisico che m'aiutasse ad affrontare le inevitabili prediche della donna: ma quel letto era o mi pareva essere uno dei più duri e gelidi che avessi mai provato.

«Tutti gli anni la stessa storia!! Io avevo acconsentito ad accompagnarvi a patto che non si verificassero episodi come quelli della gita scorsa! E poi, caso strano, i casini li organizzi sempre tu, Marchi, insieme al tuo caro e fedele compagno che ora finge pure di dormire. E noi continuiamo ad andare in giro a farci passare per degli incivili...»

Il ricordo delle parole di quel discorso si perde nella mia memoria anche perché‚ dopo poco la donna cominciò a ripetere ossessivamente le stesse cose.

Ella stava in piedi al capezzale del mio letto con l'aria di chi è stato appena destato; alle spalle aveva il tavolino galeotto e, a quanto pareva, non si era ancora accorta di ciò che vi era sopra.

Oramai i fuggitivi erano presumibilmente tutti nelle proprie camere e per questo Mino si sentì autorizzato a recitare la parte dell'immacolato destato di soprassalto senza motivo.

«E' inutile che mentiate! Non sono venuta da voi a caso ma perché‚ qualcuno mi ha riferito che proprio in questa stanza c'erano almeno venti persone!!».

Mino rise nervosamente ed entrambi maledicemmo in cuor nostro Barto il quale era comunque da elogiare per la raffinata vendetta che aveva escogitato.

«Ma,» chiese Mino «lei ha sentito rumore?».

«No.» rispose la professoressa.

«Allora, anche se, per ipotesi, noi avessimo ospitato così tanta gente, in definitiva non avremmo disturbato nessuno. Ma, visto che noi é da più di tre ore che dormiamo e che, in effetti, lei non ha sentito confusione, non potrebbe essere che il suo informatore abbia voluto fare un dispetto a noi o, ancor peggio, fare uno scherzo a lei?».

Ella non sembrò convinta ma l'unica cosa che pareva interessarla in quel momento era il proprio letto: infatti aveva un aspetto decisamente orribile e solo a tratti sotto le sue grevi palpebre si riuscivano a scorgere le pupille; tant'è vero che quando si volse verso il tavolino nell'atto di andarsene, mentre l'adrenalina andava riempiendo le nostre coronarie, guardò ma non vide ciò che avrebbe potuto incolparci.

Comunque a riprova della sua incredulità varcò la soglia dicendo: «Per questa volta passi... Ma che non succeda mai più!».

Dopo poco tornarono i miei compagni per riprendersi la loro roba. Io però rimasi sotto le coperte per non incontrare lo sguardo di una persona, anche se non avrei saputo dire chi essa fosse esattamente.

Finalmente se ne andarono e con loro se ne andò anche il disagio di sentirsi pesantemente osservato..

Esausto Mino venne a letto e spense la luce.

Io ebbi una notte affatto tranquilla: spesso rimanevo svariati minuti con gli occhi sbarrati nel vuoto; poi provavo a dormire, mi giravo e mi rigiravo; una cosa mi tormentava: il mio fianco sinistro rimaneva gelido e quasi atrofizzato: era come se qualcuno avesse portato via con se una parte di me.

II. (Release 3.3)

Questo, come dicevo, é il primo ricordo che ho di lei; prima di questo momento, il buio più totale. Si può quindi considerare questo episodio la porta dalla quale lei è entrata nella mia vita.

La mattina seguente nella sala della colazione avevamo un po' tutti la faccia stravolta dalla sonno ma quando entrarono Petra ed Eleonora notai come solo loro, tra tutti i commensali, potessero tenermi testa in quanto a profondità delle occhiaie e cercai di capirne il motivo: per quanto mi riguardava non avevo chiuso occhio un po' per il freddo, un po' per la durezza del materasso e un po' a causa di qualcosa che non riuscivo ancora a capire. In quanto a loro l'unico motivo che mi venne in mente fu che avessero passato la notte a discutere come sapevo erano solite fare.

Lei si sedette dietro me e subitaneamente ebbi un moto di gioia; poi la sensazione di essere chissà come minuziosamente osservato mi infastidì a tal punto che me ne andai stizzito.

Quella mattina noi tutti effettuammo un'escursione su un altissimo monte innevato ed io cercavo o di isolarmi o di dedicarmi a Tecla alla quale ero legato, nonostante tutto, da una forza invincibile. Ma mentre Tecla e le altre portavano jeans sbiaditi e piumini chiari, Eleonora, fedele all'ultima moda di quel periodo, indossava un paio di pantaloni neri ed era completamente avvolta in una mantella dello stesso colore: per questo ogni volta che guardavo il gruppo delle ragazze, la prima cosa che si imponeva alla mia attenzione in quella fulgidissima neve era proprio Eleonora che in questo modo continuava ad imperversare nella mia mente.

La cosa buffa era che io passassi lunghi minuti a rimuginare su di lei intendendola come entità fisica e niente altro: una qualsiasi elucubrazione connessale mi sarebbe infatti sembrata un tradimento nei confronti di Tecla la quale era sempre più disorientata e furiosa nei miei confronti. Lo stato di confusione di quella ragazza era comunque destinato ad aumentare...

L'indomani ci trasferimmo in un grande centro di villeggiatura ove successe qualcosa che allora feci molta fatica a comprendere.

Da tempo la nostra brigata era nettamente divisa in piccoli gruppi di tre o quattro persone che facevano ogni cosa insieme e si scambiavano ogni confidenza fino ai più reconditi recessi della psiche. Nel mio caso ero profondamente legato a Mino con cui dividevo ogni esperienza e con il quale, ad esempio, mi ero già sfogato per quanto riguardava la mia complicatissima situazione sentimentale.

A volte pero capitava che Eleonora e Petra si unissero a noi due ma di ciò non mi ero mai meravigliato poiché‚ secondo me era dovuto alla sfrenata passione di quest'ultima per il mio amico. Per questo mi trovavo spesso a dover trascorrere interi anonimi pomeriggi in compagnia di Eleonora e ciò non mi aveva mai particolarmente turbato prima di quella famosa sera.

Ma quel giorno, per ben comprensibili motivi, non volevo assolutamente usufruire della compagnia di quelle due fanciulle e così cercavo di starmene sempre il più lontano possibile da loro ma soprattutto da Mino.

Dopo una mezza mattinata trascorsa a destreggiarmi in questo estenuante rimpiattino che tra l'altro mi impegnava a tal punto da impedire che mi dedicassi a Tecla, si avvicinò a me Barto e disse: «Vieni con me. Ti porto nella parte alta del paese dove c'è una pasticceria che confeziona dolci favolosi».

Acconsentii per distrarmi e ci incamminammo per la ripida salita che conduceva al centro storico costituito da un enorme castello gotico fortemente slanciato; la stretta stradina che procedeva a spirale attorno alla rocca era delimitata da altissime case con muri bianchi e infissi di legno massiccio e questa disposizione originava un insolito fenomeno di risonanza acustica; mi resi conto di questo poiché‚ mi divertiva, più che ascoltare, seguire il suono della voce di Barto che rimbalzava da una fioriera a una vetrina ad un davanzale.

Ad un tratto un rumore mi giunse dall'inizio della salita.

Immediatamente e senza motivo trasalii ma mi calmai quasi subito per ascoltare meglio quel suono nella strana speranza di averlo male interpretato.

Era un rumore di passi causato sicuramente da due persone.

Era un suono continuo, incalzante di tacchi che picchiando sul selciato diffondevano il loro suono attraverso lo stretto tunnel di quella strada.

Non capivo il perché‚ di questo mio terrore che proveniva dal profondo; soprattutto mi sconcertava il non sapere di cosa dovevo aver paura.

In ogni caso non vi erano dubbi sull'identità di chi ci stava seguendo: le uniche due persone a calzare stivali di quel tipo e con quel tacco erano Petra ed Eleonora. Questo era indubbiamente un indizio oltremodo insignificante se non fosse che qualcosa nella mia mente mi assicurava senza possibilità di fallo che chi ci seguiva erano proprio le due amiche.

Compii un terribile sforzo per resistere alla tentazione di voltarmi e cominciai a conversare più fittamente con Barto per distrarlo da quel suono che, evidentemente, non aveva ancora udito. Ma seppure chiacchierando continuavo ad interrogarmi sul perché‚ le ragazze ci avessero seguito: oramai il fatto che tentassero di raggiungerci era indubbio poiché‚ il loro passo si faceva sempre più vicino e cadenzato nonostante la salita fosse ripida ed io e Barto procedessimo speditamente.

«Cosa possono volere da noi?» pensai «Non di certo la nostra compagnia dato che Mino non é con noi. Per di più esse odiano quasi a morte Barto... A meno che...».

Soppressi un altro conato a voltarmi e seguitai a pensare:

«A meno che finalmente l'estenuante corte di questo bellimbusto non abbia sortito il dovuto effetto... Ma su chi? Non certo su Petra che predilige il tipo aitante quale non è Barto. Allora su Eleonora. Certo, certo. E' Nora che si è invaghita del bel tomo. Certo. Non può essere altrimenti.»

Quest'ultima riflessione mi distrasse più del dovuto e, nell'attimo in cui io lasciai languire la conversazione, Barto si volse, riconobbe e chiamò le ragazze e mi impose di fermarmi.

Mi voltai e guardai solo Petra: il suo volto era una vera rappresentazione artistica del disappunto. Attribuii ciò al fatto che ella avrebbe preferito seguire le tracce di Mino invece di restare in mia compagnia. Per questo fin dal primo momento cercai di essere solidale con lei e mi mostrai più cortese possibile.

Cosicché‚ appena giunsero presso a noi chiesi, rivolgendomi a lei sola:

«Noi stiamo andando in pasticceria; ci fate compagnia?».

Esse si infilarono tra di noi in modo da lasciarci alle estremità della riga che si era venuta a formare e io mi ritrovai ad avere Petra alla mia sinistra.

Immediatamente cercai di trastullarla con discorsi faceti ma già dopo qualche istante non attendevo altro che l'inevitabile momento in cui Barto ed Eleonora si sarebbero staccati dal gruppo per appartarsi ed io avrei potuto cessare di fingere ipocritamente e separarmi da Petra: ma quella pasticceria pareva proprio fosse in capo al mondo!

Successivamente però la mia interlocutrice divenne sempre più interessata e divertita ai miei discorsi, io mi rilassai, dissipai ogni preoccupazione e la nostra conversazione si animò al contrario dell'altra la quale al mio orecchio appariva piuttosto spenta o perlomeno univoca...

All'improvviso la strada si restrinse maggiormente fino a che, in un punto ove un mucchio di neve la occupava totalmente, fummo costretti a disporci in fila indiana: io abbassai gli occhi per non calpestare i piedi degli altri e quando giungemmo al di là del cumulo e ci riallineammo li levai di nuovo trovando al mio fianco Eleonora.

Era ormai evidente come io non riuscissi più a comportarmi normalmente quando avevo al fianco questa ragazza: senza guardarla in viso reclinai il capo e tacqui.

Stranamente si zittì anche quella voce dentro la mia testa che fino ad allora aveva gridato allarmata per non si sa quale pericolo. Probabilmente era stata repressa dalla mia stessa mente la quale ora era impegnatissima ad assaporare le emozioni provenienti da tutti i sensi: avevo spezzato la caramella che fino ad allora avevo succhiato ed ora mi si stava sciogliendo in bocca; gli occhi si erano fissati sulla punta dei suoi stivali e ne seguivano diligentemente l'alterno movimento; potevo ascoltare meglio quel suo battere di tacchi ed ora anche il suo respiro leggermente ansante; la mia pelle recepiva, non so come attraverso gli spessi maglioni, il calore della sua e, a tratti, sempre con l'abituale casualità, diciamo a causa dell'impiantito sconnesso, venivamo a contatto ed avvertivo la morbidezza del suo fianco; ma la sensazione che dominava tutte le altre era olfattiva: il suo profumo! Caldo, pastoso ed etereo al tempo stesso e, come avrei in seguito imparato bene, inconfondibilmente suo. Mi stupii di non averlo notato la sera prima ma la cosa non era poi tanto strana visto che la piccola stanza era affollatissima e l'aria stagnante e assassina.

Forse per scacciare quel profumo che mi invadeva tirannicamente, ma soprattutto per assecondare un nervosismo che mi imponeva di fare assolutamente qualcosa, volli accendermi una sigaretta.